venerdì 25 novembre 2011

Il colore di questi passi



Non c'è, non c'è stato un momento preciso in cui sia incominciato il viaggio. Qualcuno dice che esista un unico filo rosso invisibile che leghi tutti i momenti della nostra vita l'uno con l'altro. E spesso seguire quel filo significa lasciarsi al vento. Qualche dettaglio risuona nella nostra fantasia mentre camminiamo e cattura la nostra attenzione, così scegliamo che strada prendere. Non conosciamo nemmeno il percorso che stiamo facendo, né dove possa condurre, ma solo nel finale, visti dove siamo giunti, ci si può accorgere che l'unico e solo destino che esista è quello tracciato dall'orma dei nostri passi.
Nitidamente ricordo un giorno in cui, da ragazzo, sfogliando una rivista qualunque mi sono imbattuto in una foto particolarmente suggestiva, una scena evocativa e intrigante. Qualcosa in quei colori deve avermi tolto il fiato se ancora oggi conservo appeso, a fianco del comodino, quel ritaglio di carta spiegato e impallidito agli anni. Ritrae un uomo vestito completamente in bianco ai piedi di una statua di pietra. Guarda verso l'alto mentre versa del latte sulla roccia per lucidarla e lavarla. Si tratta di un jainista, seguace di una religione antica; l'unica cosa che mangia quest'uomo oltre alle radici secche di alcuni arbusti è il latte; la statua è un monolito scolpito e sottratto alla terra, si trova in cima ad un colle vicino ad un paesino nel sud dell'India, Shravanabelagola, è alto oltre diciassette metri ed ha più di mille anni. Mi è tornata alla mente questa immagine lo scorso inverno, quasi dieci anni dopo averla rubata alla smemoratezza: fumavo una sigaretta alla fermata dell'autobus, ho guardato per terra ed ero circondato da mozziconi spenti. Mi son chiesto cosa avrebbe potuto dire o pensare un bambino, chissà, probabilmente non lo avrebbe nemmeno notato; quando invece succede che l'uomo nella foto ha percorso chilometri per giungere al colle, con il suo solo manto bianco ed una scopa, spazzando la strada di fronte a sé per evitare di calpestare foss'anche il più piccolo degli insetti. La domanda che mi stavo ponendo era: “Come potrei mai spegnere una sigaretta sul ventre di nostra Madre?”. Certo è solo asfalto. Ma deve esserci qualcosa nell'aria, nei sassi, dentro gli stessi pensieri, le sensazioni. Qualcosa tra noi, se anche queste piccole inezie possono farmi cambiare e crescere. “Insignificante”, ho pensato, è una parola che non può essere attribuita a niente, è appunto priva di significato. Deriva dal latino signum, cioè segno, la cui radice europea è sak- che innanzitutto significa. E il suo significato è «dire», «mostrare». Insignificante è dunque tutto ciò che non può esprimersi, che non ha voce. Eppure, sarà solo un'impressione, ma a me pare che ogni cosa qui abbia qualcosa da dire, stia parlando del sé. Forse è questa l'unica vera legge del regno naturale: esprimersi, liberarsi, cantare. E capita certe volte, senza nemmeno accorgersene, di riuscire ad ascoltare e sentire le note. Personalmente non ho mai più gettato una sigaretta alla terra. Ed è strano pensare a quel giorno, quando ancora non sapevo che sarebbe trascorsa solo qualche settimana prima di vedermi all'agenzia di viaggi acquistare un biglietto aereo per Mumbai. Ma cosa è successo? Dov'è finito il nastro rosso in tutto questo? Mi chiedo se per la ragione sia davvero una necessità attribuire un senso agli eventi e agli avvenimenti che ci toccano. Perché francamente trovo difficile descrivere, ci sono cose che non possono condividersi, e quando le vediamo semplicemente le riconosciamo nostre, per noi: queste cose ci scelgono.
Ricordo quel pomeriggio guardavo la televisione. Trascorrevo un periodo di studio ad Helsinki, in Finlandia, ed ero in compagnia di una ragazza giapponese conosciuta in studentato, un'amica jinn di nome Koko. In quel momento di svago ci siamo messi a cantare la filastrocca di un cartone animato trasmesso dalla scatola nera parlante, si intitolava: “The Best Day Ever”, il miglior giorno di sempre. Il protagonista si sveglia, salta giù dal letto, fuori il Sole lo guarda e gli sorride, si lancia allora verso un calendario grande come la parete cadendo su un giorno qualsiasi, poi continua a cantare. Nel nostro gioco abbiamo battezzato quel giorno del calendario come il migliore di sempre: il tre di marzo. Sono trascorsi due anni da allora quando lei mi ha scritto: “Hai il tempo per avere un viaggio?”. E ora tutto questo mi sembra sciocco, solo un ritaglio sbiadito appeso al muro, un cartone animato per bambini. Sono soltanto il seme di un'attrazione divenuta ormai viscerale per un mondo nuovo sconosciuto, distante ed escluso da ogni rotta di viaggio del mio quotidiano. Ho pensato: "Questa è la mia occasione di entrare nella foto". Tutto il resto è venuto da sé. Koko ed io abbiamo dunque concordato di incontrarci a metà strada fra Giappone e Italia. Per pura coincidenza i nostri voli sono atterrati alla vecchia Bombay la stessa mattina con la differenza di poche ore. Ci siamo incontrati immediatamente e mi è sembrato di rivedere la sorella con cui sono cresciuto dopo tanto tempo in un luogo risiedente fuori dal mio immaginario. L'impatto del giorno è stato incredibile, era appena l'alba quando la città si è messa in moto poco a poco. Ci siamo subito immersi nella corrente. Il profumo di un ricordo atavico, la luce resta sospesa in un'aria languida, il Sole immobile mentre compie il suo giro dona vita ad ogni cosa, calore latente, per la prima volta ho creduto che gli alberi potessero muoversi, ma che nella loro saggezza scegliessero ogni giorno di restare fermi ed impassibili, ad ascoltare e ricevere la luce degli astri, sola vittoria sulla polvere nella semplicità di una foglia. I banyan sono gli alberi simbolo di questo paese, se lasciati crescere possono coprire ettari di superficie e vivono per centinaia di anni; il segreto della loro magnificenza risiede nel fatto che da ogni ramo che crescendo punta verso il cielo pendono rami che scelgono di tornare verso la terra. Una volta raggiunto di nuovo il suolo infatti formano nuove radici e si invigoriscono fino a divenire nuovi fusti per l'albero. Giunge il giorno in ogni essere di condividere questa sensazione, quando in ogni dove si posi lo sguardo si scorge il riflesso di un cammino ordinato. Da poco trascorsa l'alba, la mia compagna ed io sedevamo su un treno, mancava poco al nostro giorno e c'era un luogo che dovevamo raggiungere.
Quest'anno il calendario lunare degli induisti ci ha fatto un regalo: il tre di marzo si celebrava la "Grande Notte di Lord Shiva", Maha Shivaratri. Ho il cuore sgombero da ogni dubbio o pensiero, non ci sono domande da fare: noi non potevamo mancare. Siamo stati così cullati dai binari per dodici ore circa diretti a sud. Le immagini scorrono davanti agli occhi, lentamente il paesaggio si trasforma, la vegetazione si esprime ad un clima diverso, le case invece ad una vita ed un lavoro diversi. Ogni tanto si scorge una metropoli di grattacieli, cemento e palazzoni, altre volte si trovano villaggi di fango e sabbia. Passata la notte, la mattina del nostro miglior giorno di sempre, due autobus ci hanno condotti a Gokarna, il cuore della festività in onore al dio danzatore. Si tratta di un piccolo paese sul mare circondato da bosco e giungla. Qui una volta l'anno giungono viandanti e pellegrini da chissà dove a porgere le proprie offerte alla divinità. Anche quel giorno il Sole vantava la sua gioia sul suo creato, trascorsa infatti la stagione delle incessanti piogge dei Monsoni in estate, si rischia di non vedere una nuvola per mesi e mesi. La strada principale del villaggio conduceva al tempio dove fin dalle prime ore del giorno i fedeli avanzavano in fila, scalzi e con nelle mani foglie, fiori, noci di cocco e banane; in più qualcuno arrivato dal nord reggeva vasi di rame colmi d'acqua: "E' l'acqua del Gange", ci ha spiegato una donna. La portano in vasi scoperti per oltre mille chilometri per versarla sul caldo Lingam di Shiva, la rappresentazione fallica del dio, fatta di pietra e custodita nel tempio, un simbolo ancor più antico della stessa dottrina religiosa. L'abbaglio della luce sulla polvere della strada impallidiva l'aria. Il percorso è costernato di bazar e bancarelle, venditori ambulanti e bambini. In fondo al cammino si erge un imponente carro di legno, dipinto e vestito con teli e bandierine colorate. Ci avviciniamo. Cammino piano e non sento nessuna stanchezza. Ci fermiamo ai piedi del carro, c'è un uomo seduto su un tappeto che ci mostra il suo banchetto. Ha tre linee bianche disegnate sulla fronte, è un monaco e vende ogni genere di artigianato locale. Qui ho trovato il mio gigante di pietra, i rami sono tornati radici. Lo guardiamo mentre afferra la grossa conchiglia di un tritone marino, la porta alla bocca e soffia con forza. Il suono è fresco, profondo, intenso, il petto vibra mentre mi nasce un sorriso. Non avevo mai udito niente di simile e la gioia di essere qui mi invade, faccio fatica a credere come questo momento mi stesse aspettando. Il cuore è ora completamente aperto. E sento allora una lieve carezza sulla testa, sulla guancia, soffice, delicata. Mi volto, guardo intorno, ma non vedo nessuno, mi sento stranito mentre il richiamo della conchiglia permea e pervade ogni cosa intorno. "Qualcuno mi ha appena dato una carezza". Guardo ai miei piedi e finalmente lo vedo, si sarà staccato dal carro, è un fazzoletto di tela, è rosso.


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